Il 6 novembre 1953 a causa dello sciopero generale dei lavoratori e della serrata degli imprenditori la città sembra in un primo momento deserta.
I sindacati hanno invitato tutti a restare a casa per evitare turbamenti e nuove violenze. Tuttavia, dopo le nove esplode la guerriglia urbana.
In varie zone di Trieste agenti della Polizia civile ed ufficiali britannici vengono aggrediti, e le loro auto incendiate.
È nuovamente attaccata la tipografia pro-Tito di via San Francesco, dove questa volta i manifestanti riescono a sopraffare gli agenti di guardia e ad irrompere nei locali. Sorte ancora peggiore tocca alla sede del Fronte per l’Indipendenza: i manifestanti, circa un migliaio, riescono a penetrarvi e scaraventano in strada tutto il mobilio e il carteggio dandovi poi fuoco davanti ad uno sparuto gruppo di poliziotti resi impotenti dalla sproporzione numerica.
La folla, sempre più numerosa, prosegue verso piazza Unità d’Italia.
Bartoli fa esporre fuori dal municipio due bandiere italiane a mezz’asta in segno di lutto per i due morti del giorno precedente.
Winterton ritiene il gesto di Bartoli una provocazione anche personale, e ordina di ammainare e sequestrare le due bandiere.
La rabbia dei manifestanti esplode allora nei confronti del vicino palazzo della Prefettura, presidiato dalla Polizia civile.
I dimostranti attaccano a più riprese l’edificio, lanciando sassi ed alcune bombe a mano; la polizia carica con le jeep e spara a più riprese. Solo l’intervento delle truppe degli Stati Uniti, percepite come più amichevoli, riuscirà a placare gli animi della folla.
Alla fine degli scontri rimangono uccisi quattro dimostranti: Francesco Paglia, Saverio Montano, Leonardo Manzi ed Erminio Bassa.
Nel pomeriggio vengono dispiegate in città le truppe anglo-americane di guarnigione mentre il vescovo Santin ed il rappresentante del governo italiano, de Castro, girano per la città cercando di calmare gli animi.