Gli incidenti di Trieste si verificano in un momento in cui le diplomazie dei vari paesi coinvolti, reduci dalla crisi delle settimane precedenti, sono ormai giunte ad un momento di stallo: l’Italia pretende l’applicazione della “Bipartita”, temendo che anche questa, come la “Tripartita”, col passare del tempo possa finire col perdere qualsiasi validità politica; la Jugoslavia, per contro, pretende che qualsiasi soluzione della questione di Trieste venga concordata col governo di Belgrado, ponendo quindi il veto sulla “Bipartita”; Stati Uniti e Gran Bretagna, di conseguenza, scoprono che con la “Bipartita” si sono incamminati su di un binario morto, anche se verso la metà di ottobre Tito ha aperto ad una soluzione provvisoria.
Gli incidenti di Trieste non accelerano la soluzione della crisi diplomatica, ma anzi la rallentano. Il governo britannico, che ritiene quello di Roma responsabile dell’accaduto, blocca ogni iniziativa a favore dell’Italia, dove si diffondono sentimenti antibritannici e si amplifica l’attenzione alla Zona A, anche se parallelamente diminuisce quella per la Zona B, data ormai per perduta. Il governo jugoslavo, che diffida sempre di più degli anglo-americani, rimane aperto ad una soluzione provvisoria, ma assume una posizione di netta intransigenza per quanto riguarda la “Bipartita”.
Il governo di Roma, che oramai diffida anch’esso dei suoi alleati atlantici, chiede invece l’immediata applicazione della “Bipartita”. Per alcune settimane viene valutata la possibilità di indire una conferenza internazionale ad hoc, ma l’ipotesi è impraticabile: è evidente che americani e britannici non hanno alcuna intenzione di correre rischi, mentre gli italiani non sono disposti a partecipare a conferenze che non abbiano all’ordine del giorno la “Bipartita”, e gli jugoslavi al contrario rifiutano qualsiasi conferenza che non abbia un ordine del giorno che si distacchi dalla “Bipartita”.
Ne seguono quindi alcuni mesi di assoluto stallo diplomatico.